La vita fa rima con la morte si apre con una domanda: perché scrivi? Da essa ne derivano altre, che si affastellano nella prima pagina del libro. Sono domande alle quali lo scrittore protagonista si aspetta di dover rispondere al termine dell’incontro letterario cui è stato invitato come ospite d’onore. Prima, durante e dopo quest’incontro lo scrittore divaga, cogliendo dettagli dalle persone intorno a lui e sviluppandoli in abbozzi di storie, che a loro volta richiedono altri dettagli, generano interazioni e danno vita a intrecci spesso imprevedibili. Amos Oz gioca col flusso di coscienza, passa dalla prima alla seconda alla terza persona, scivola da un personaggio all’altro senza mai abbandonare l’unico luogo in cui è ambientato questo libro: la testa dello scrittore.
Una volta giunti all’ultima pagina non si trovano risposte dirette alle domande con le quali il libro è iniziato. Forse perché la risposta sta in quel divagare creativo e istintivo nel quale lo scrittore non può fare a meno di perdersi, varcando di continuo la soglia fra realtà e immaginazione.
Intrigante e riflessivo, non privo di autocompiacimento.
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