sabato 19 novembre 2011

Di paperi, storie e altre faccende


D: Eccoci qui, immerso nella folla di Lucca insieme a Makkox, uno dei pezzi grossi del fumetto italiano, sulla cresta dell’onda già da un po’.
R: Addirittura.

D: Sì, è una di quelle frasi fatte che però...
R: No no, invece mi piace, in fondo io abito la rete e in effetti onda, riferito al web, è il termine giusto, perché è un movimento volatile. L’onda dura un attimo, quindi vivere sulla cresta dell’onda è come un monito.

D: Dura un attimo come molte delle cose che passano sul web.
R: Sì, il fatto è che il web si propone come memoria del tutto ma proprio perché gigantesco, la memoria del tutto perde valore. Ancora oggi quello che resta veramente è sulla carta mentre sul web… voglio dire, certa roba mia di tre anni fa per me è come se fosse distante trent’anni.

D: Eppure il tuo linguaggio è molto legato alla struttura del web – penso alle tue celebri vignette verticali, ad esempio.
R: Sì, quella è stata l’unica intuizione, se così possiamo chiamarla, di tutta la mia vita. Io sono sempre stato affascinato dal web. Sono sempre stato un frequentatore, però non avevo mai pubblicato niente, mi interessavo di programmazione. Ad un certo punto ho pensato che se volevo fare qualcosa sul web doveva essere qualcosa che fosse talmente adatto a quel mezzo da non poter essere riportato su carta, qualcosa dal quale non si potesse più tornare indietro senza perdersi. Così ho approfittato della cosa più naturale, e cioè lo scroll, che rappresenta il novanta per cento dei movimenti che l’utente fa quando naviga. Ecco, questa è una trovata di cui sono contento.

D: A questo punto non posso che chiederti “perché il fumetto?” Cosa ti piace del fumetto? In una delle tue strisce fai dire al tuo alter-ego che vuoi “far cantare il bianco della carta”. È questo uno dei motivi principali per cui sei diventato fumettista? E poi, come si fa a far cantare il bianco della carta su internet?
R: Allora, partiamo dalla prima, come sono diventato fumettista? Guarda, è una cosa che ti diranno tutti, e cioè che ci nasci così, nel senso che io ho sempre disegnato, ma anche scritto ed entrambe le cose mi hanno sempre dato soddisfazione. Quando avevo qualcosa da dire io me lo scrivevo, come in un diario, ma corredavo il tutto con disegni, disegni parlati e poi… ho continuato così, a coltivarmi così, senza riferirmi troppo ai fumetti, che infatti non conosco. Ho coltivato un mio modo di esprimermi. Io voglio che il disegno faccia parte della calligrafia. Quando scrivo non è che prima faccio una brutta copia a matita e poi ripasso ogni tratto, per far uscire tutte le “t” della stessa altezza. Cerco, perché è una ricerca, come fanno tutti i grandi maestri, di trasformare il disegno in calligrafia, con tutte le sue storture, gli errori e via dicendo. Alla fine diventa davvero tuo. Poi, ovviamente, bisogna contare su una base di disegno fortissima, sulla quale io posso confidare abbastanza perché mi ci sono rotto il culo davvero di brutto, fin da ragazzino.

D: Ma infatti tu non sei diventato famoso subito ma hai fatto, parole tue, tanto lavoro da insetto.
R: Sì, sì. Bisogna fare come le cicale, che stanno vent’anni sottoterra e poi ne campano uno fuori. Bisogna interiorizzare tanto della propria espressività, del proprio disegno, anzi, del proprio segno e poi quel disegno si fa struttura e tutto diventa più “facile”. Questa, però, è la mia esperienza, non è detto che sia uguale per tutti, anzi. Certo mi sarebbe piaciuto uscire prima, non a quarant’anni, ma non ho trovato interlocutori.

D: Il mio professore di storia dell’arte soleva ripetere che “l’artista matura in tarda età”, quindi, siccome la tua età non è tarda, direi che sei ancora in tempo. Detto questo, tu ti senti maturo?
R: Guarda, la definizione esatta non è maturo; mi sento abbastanza padrone del mezzo. Poi, maturità… no, non mi sento ancora pienamente maturo come artista.

D: Meno male, nel senso che puoi ancora migliorare.
R: Sento margini di miglioramento nelle cose che posso narrare, c’è ancora molto da dire.

D: E a proposito di narrazione, c’è un’altra cosa che vorrei chiederti: tu sei apprezzato per la tua satira, ma anche per le tue storie più introspettive, cosa che non si può dire di tanti autori. Cosa c’è, dunque, che unisce queste tuoi due approcci? Cos’è che la gente apprezza di Makkox?
R: Io penso sia il fatto che faccio satira in maniera un po’ diversa, nel senso che non riesco a fare la vignetta con la battuta secca; la mia satira è sempre molto dialogata e diventa quindi narrativa, c’è un lasso di tempo che passa, ci sono cose che succedono. Non è la fotografia del momento, è più una scena quella che io racchiudo in una vignetta, con i dialoghi a costituire l’elemento forte del mio raccontare. Penso, quindi, che il trait d’union sia lì.

D: Sempre restando in tema, tu una volta hai detto che la tua è una satira fatta di avanzi da cucina, perché, per caratterizzare i personaggi che tiri in ballo, i vari Berlusconi, Tremonti e via dicendo, tu, non conoscendoli, prendi ispirazione da persone che te li ricordano. Il personaggio di don Mimì (protagonista delle storie pubblicate sul Canemucco e opzionato per un progetto cinematografico dal titolo I pescecani, N. d. A.), nasce alla stessa maniera?
R: Assolutamente sì. Fa parte della mia esperienza di lavoro in una terra abbastanza borderline, con situazioni particolari. Chiamarla malavita organizzata non rende bene l’idea perché è una sorta di malavita storica, radicata, etnica. Io ho lavorato in una cava vicino a Casal di  Principe, e lì ho conosciuto tutta una tipologia di persone, anche oneste, che però hanno fatto proprio quel modo di interagire fra di loro, per emulazione.

D: Ma tu, tramite il personaggio di don Mimì, volevi dire qualcosa o volevi semplicemente raccontare quella storia?
R: Allora, come spesso accade la spiegazione è molto più banale di quanto si pensi. Io non ho messaggi da lanciare, tutto nasce dalla mia passione per le serie. Penso che un italiano come me, nato e cresciuto in provincia, una buona serie la possa scrivere traendo spunto dal materiale che trova intorno a sé. Io non potrei fare accadere qualcosa in luoghi che non ho mai visitato.

D: Diversi scrittori infatti dicono che si debba scrivere solo di ciò che si conosce.
R: Vero. C’è anche da dire che io amo Salgari, che non è mai stato nei posti che ha descritto; io però non sono capace di fare altrettanto. Siccome la mia tensione è sempre alla narrativa alta, volevo che la mia narrazione fosse sempre pregna di vero. La mia, però, non è una storia di denuncia, ho anche ripulito un po’ il tutto, come fanno ne I Soprano’s, come fa Scorsese. Quelle sono storie di malavita… stilizzata, che riesce anche a essere divertente. Mi interessa una narrazione che vada al di sopra delle banalizzazioni in bianco e nero.

D: Domanda annosa: letteratura impegnata o popolare? Prima il messaggio o prima la storia?
R: Guarda, ‘sta cosa che ci debba sempre essere la morale di fondo a me risulta secondaria, come se fosse un effetto collaterale. Se è alla radice del tuo scrivere la motivazione dev’essere davvero forte, devastante. Pensa a certi scrittori che vengono da situazioni drammatiche, di conflitto, come in Medio Oriente, ad esempio. In loro il desiderio di denuncia è intimo, radicato. La storia però non è mai pretestuosa, c’è molto di autobiografico, i personaggi non sono figurine funzionali a denunciare qualcosa. Per me la narrativa alta è quella dove i personaggi sono tutto. Nessuno si ricorda la storia completa di Amleto, ma tutti sanno chi è. Stessa cosa per Il mercante di Venezia, o per Romeo e Giulietta, voglio dire, non è che Romeo e Giulietta inizia che si piacciono e alla fine crepano entrambi, in mezzo c’è tantissimo. Pochi conoscono la storia ma tutti conoscono Romeo e Giulietta.

D: Non è una questione di temi, insomma.
R: No no, non è una questione di temi, non è che la letteratura alta è quella che tratta della vita mentre la bassa è, che so, la fantascienza. Per me uno dei più grandi scrittori, che avrebbe meritato il Nobel e che so essere stato in lizza, è Stanislaw Lem, l’autore di Solaris, per intenderci. Non è solo un autore di fantascienza, è uno scrittore che sa trattare la materia umana come pochi. Il genere non fa la differenza. Un altro esempio è George Simenon, altro più volte candidato al Nobel.

D: Torniamo ai tuoi personaggi e a quello che peschi dalla realtà per caratterizzarli. Cosa metti di te? Quanto Marco c’è dietro il papero?
R: Tantissimo. Sai quale dovrebbe essere la domanda giusta? Dietro Paperino – perché il mio papero viene proprio da lì – quanto di me ho ritrovato? Io mi sono affezionato tantissimo a questo personaggio fin da piccolo, perché è irascibile come me, Paperino è incazzosissimo, mi ci sono riconosciuto.

D: Insomma, non sei un perfettino noioso come Topolino?
R: No, no, assolutamente. È la persona che Paperino credo dovrebbe detestare di più, tutto così, che non sbaglia mai.

D: Mi hai citato Lem, Simenon, Paperino, quindi, le tue fonti di ispirazione come…
R: Oh, allora, a questa ti devo rispondere bene. La mia fonte di ispirazione non è mai la scrittura degli altri. Quello è il nutrimento che viene macerato ed entra in me, è ciò di cui mi approprio. Quando trovi una soluzione espressiva efficace, la rubi e la fai tua, anche inconsciamente. Non è questione di copiare. L’ispirazione, però, viene sempre e solo dalla realtà. Chiaro che se leggo un buon noir viene voglia anche a me di scrivere un noir, però alla mia maniera.

D: È come un filtro di cui tu ti appropri per raccontare quello che vuoi tu.
R: Esatto. Io poi sono molto legato al noir, ce l’ho nell’anima. Penso che il noir sia una sorta di stilizzazione popolare della tragedia e io adoro la formula della tragedia: i personaggi sono complessi, l’umorismo è fortissimo e i finali non sono mai risolutori, netti.

D: È il richiamo realistico che ti piace. Non ti interessa scrivere la storiella edificante.
R: Assolutamente no.

D: Ti consideri ottimista?
R: Assolutamente sì. Se c’è una cosa in cui credo è quella cosa, quella scintilla ancora non ben spiegata che ci porta ad andare contro all’entropia, alla distruzione e a costruire.

D: Un po’ come il miracolo termodinamico del Dr. Manhattan?
R: Ma lo sai che ogni volta mi parlano del Dr. Manhattan e io non so chi cazzo sia? Cioè, lo so, ma non l’ho mai letto. Va be’, comunque, io sono amaro e sarcastico e tutto quello che vuoi, ma non cinico perché il cinico è senza speranza. Nelle cose che scrivo c’è sempre almeno un briciolo di positività, non so se chiamarlo vero e proprio ottimismo.

D: Cosa che si capisce anche dalla galleria di personaggi che popolano le tue vignette satiriche; per quanto siano discutibili e, alcuni, terribili, non sono mai dei mostri. È come se nel tuo sguardo ci fosse anche una sfumatura di simpatia.
R: Io sono convinto che chiunque sia dotato di parola, di parola articolata, di espressione, non può essere del tutto una merda. Le persone cattive sono quelle che non riescono a proferire verbo, sono quelli che strangolano le ragazzine. Io questa gente non la descrivo mai, gente come i Brusca, che vanno in galera per aver fatto delle cose animalesche. Se tu li senti parlare hanno un vocabolario di sei parole e non è che nella testa abbiano qualcosa di più. A me questi fanno veramente terrore. Berlusconi, Ghedini, tutti questi che disegno, non riesco a pensare che siano incarnazioni del male. Oddio, probabilmente me la racconto così per non avere più paura di quella che ho già. Io vivo molto rinchiuso, la realtà la filtro col computer perché la folla mi spaventa.

D: E il web non ti spaventa?
R: No. La possibilità di subire attacchi sul web, di essere sputtanato, la violazione della privacy e quant’altro, io la combatto con un’estrema trasparenza. A parte i comportamenti criminali, tipo quelli che ti fottono la carta di credito – m’è successo – io penso che gli antigeni ci siano nel sistema stesso. Sai cos’è? Una cosa che fa tanta paura del web sono le falsità che possono girare sul tuo conto; ecco, io questo non lo temo, perché penso che la propria storia parli per sé. Essere serenamente trasparenti aiuta a contrastare puttanate e maldicenze.

D: Cosa non da tutti, essere trasparente sul web. È troppo facile non esserlo.
R: Secondo me in futuro dovremo abituarci a convivere con un’immagine di noi stessi che non sia diversa da quella che viviamo fra le nostre quattro mura. Se Marrazzo avesse dichiarato fin dall’inizio i suoi gusti sessuali, sarebbe stato inattaccabile e non è detto che non sarebbe stato eletto. Prendi Vendola: se si fosse nascosto e fosse poi stato scoperto, si sarebbe esposto a degli attacchi devastanti. Invece lui è uscito allo scoperto subito, dimostrando che con la trasparenza si vince.

D: Anche in un paese come il nostro, noto per il contrasto fra vizi privati e le pubbliche virtù?
R: Sì. Un esempio è anche Berlusconi: lui è stato sgamato, però non ha mai negato e alla fine ha detto “ma che cazzo, lo fate pure voi, io sono fatto così”. Poi per carità, si aprono tutt’una serie di discorsi sui comportamenti che ti espongono a ricatti, sul fatto di essere una figura istituzionale, eccetera. Però la mossa in sé, di ammettere invece di arroccarsi in difesa, è stata molto intelligente. Se sei trasparente, sei inattaccabile. Penso sia una scelta obbligata per il futuro perché ormai, come te movi stai pittato. Se sei trasparente, la gente è più disposta a perdonarti quando fai la cazzata mentre la menzogna non paga. Quando tradisci non è solo il tradimento in sé a fare male, ma il fatto di aver mentito per tutto quel tempo, di aver fatto sentire un’altra persona una povera stronza.

D: Senti, un’ultima domanda, generica, e vediamo se anche qui sei ottimista: il fumetto in Italia. Come la vedi?
R: Mah, guarda, avessi la minima idea di come sta messo… Sicuramente ne vedo pochissimo in edicola e non ne vedo di buona qualità sul web, e questo mi spiace molto, perché è un errore gravissimo.

D: Forse perché il web in Italia non è ancora energico come in altri paesi?
R: Io ci vedo anche un altro freno, e cioè il fatto di mettere la propria roba gratis su internet. Ma che cazzo de gratis, non si capisce che così ci si può costruire una propria autorevolezza e che un domani quello diverrà moneta? Avere un tuo pubblico ti permette anche di riconoscerti. Tu attraverso la tua audience capisci chi sei. Io, ad esempio, pensavo di scrivere per un’elitè colta; poi alla fine ho quattromila amici su Facebook che leggono le mie cose e c’è gente che mi riconosce in fila al supermercato, gente che non ha mai letto fumetti, pecoreccia, che ascolta la peggio musica e che mi legge. Al che ho capito che io sono così. Non sarò mai Gipi. Non perché lo consideri un gradino sotto o sopra, semplicemente siamo diversi. Io sono estremamente pop. Questa consapevolezza mi ha aiutato anche a liberarmi: “ma io sono così. Buono”.

D: Ti piaci così?
R: Sì sì, adesso sì. All’inizio di meno, perché avrei voluto essere… capito? Volevo piacere all’intellighenzia. Sai cos’è? Quando vuoi essere approvato dai santoni, inizi a scrivere nel modo che pensi possa piacere a loro, finendo col diventare mimetico, assomigliando un po’ a questo, un po’ a quello. È devastante, perché nel tempo te ne libererai ma ci vorrà un giro lungo. Invece tu devi coltivare te stesso, dicendo un po’ ‘affanculo, quasi contro. Poi ti capita un giorno come per me con la satira, che per me è davvero un canale minore, che ti trovi il santone che ti mette la mano sulla spalla e ti dice “io ti leggo tutti i giorni. Tu sei forte”.

D: Chi era il santone?
R: Sergio Staino. Anche altri, ma Staino è stato lo spartiacque. Io l’ho sempre letto, mi piace perché ha sempre fatto cose nelle quali mi ritrovavo abbastanza perché erano narrative, quasi una specie di sit-com. È il discorso di prima, io nella vignetta con battuta secca non mi ci ritrovo. Non che non sia buona, non è nelle mie corde.

D: Pensi di restare legato al fumetto? A questo stile di fumetto?
R: Mi sento legato al disegno più scrittura. Anche nelle mie raccolte, la parte puramente scritta la curo tanto quanto quella disegnata, mi richiede la stessa fatica, lo stesso tempo, non è soltanto un modo per rilegare il tutto. Io sono lì, in una terra di nessuno in cui scrivere è tanto importante quanto disegnare per cui non è che io ho voglia di disegnare e quindi mi trovo un pretesto narrativo, cosa che vedo fare a tanti. Vedo tanti fumetti disegnati da dio, con delle storie sotto che se tu le prendessi dal punto di vista narrativo, tolti i disegni, non sarebbero degne di una prima prova d’esame alla scuola di scrittura più stronza che ci sia. E questo è male.

D: Che altro dire, Marco, grazie di tutto e in bocca al lupo.
R: Grazie a te.