martedì 31 agosto 2010

Ma quale Grecia, l’Olimpo è a New York. Questi americani...


Riassumendo: qualcuno ha rubato la folgore a Zeus il quale, chissà poi perchè, dà la colpa all’ignaro figlio di Poseidone. Nel giro di dieci minuti il nostro eroe viene attaccato da una Furia e dal Minotauro, viene salvato da un satiro, conosce un centauro e scopre il campo delle Giovani Marmotte Semidivine. Poi affronta la Medusa, l’Idra e i mangiatori di loto, scende negli inferi, dimostra di non saper contare fino a quattro, incontra Ade che è un patetico pirla vestito da rockstar, viene aiutato da quella strafica imperiale di sua moglie, ritrova la folgore, suona chi l’aveva rubata, salva il mondo da una guerra divina e se ne torna dalle Giovani Marmotte. Non mancano la tipa che lo attizza e il simpatico amico negretto.
Chris Columbus confeziona un frullato di mitologia teen-pop, mortificando il sense of wonder con un ipertrofico ammassamento di creature buttate nel mucchio senza un minimo di suspense, preoccupandosi poco di trama e sceneggiatura e sprecando un cast interessante.
Insomma, una cazzata tonica, che però può divertire se una sera non avete proprio niente da fare.

Branca, Branca, Branca, Leon, Leon, Leon

Brancaleone da Norcia, improbabile ma coraggioso cavaliere, guida un gruppo di spiantati in un viaggio tragicomico attraverso un Medioevo di perdenti e miserabili, ben lontano dallo stereotipo cavalleresco ma non per questo privo di gesti di amicizia e di eroismo. Impossibile non sbellicarsi nel sentire il latino maccheronico che Monicelli si è inventato insieme agli sceneggiatori Age e Scarpelli ma, nonostante la comicità, è anche impossibile dimenticare l’onnipresenza della morte. Ma il linguaggio non è l’unico pregio de L’armata Brancaleone: notevoli i costumi, la colonna sonora e, soprattutto, strepitosa l’interpretazione di Gassman, primo fra gli ultimi, carismatico e generoso leader della scalcagnata compagnia. Un po’ sotto tono Volonté ma ci pensa Enrico Maria Salerno a dar man forte al protagonista col suo invasato predicatore. Commedia popolare ricca di riferimenti profondi, un classico del cinema italiano.

venerdì 27 agosto 2010

Il virus a cavallo fra gioco e narrativa

New York, 1946. Un virus di origine aliena colpisce la città, stermina rapidamente la maggior parte dei contagiati, sfigura il 90% dei sopravvissuti (i Jokers) e dona capacità sovrumane al restante 10% (gli Aces). Da allora il mondo è cambiato. Uomini e donne in grado di volare, di assorbire le menti altrui, di fermare il tempo o sollevare mezzi blindati si ritrovano coinvolti nelle grandi manovre politiche della guerra fredda mentre nelle malfamate strade di Jokertown, sobborgo della Grande Mela nel quale si radunano gli sfortunati e grotteschi mostri che hanno “pescato la carta sbagliata”, razzismo, malcontento e violenza crescono giorno dopo giorno.
Wild Cards, L’origine introduce il lettore all’universo condiviso di Martin e soci, nato da un gioco di ruolo e giunto, in America, al diciassettesimo volume.
L’edizione italiana è discutibile – frequenti errori di battitura, copertina insulsa – ma non sminuisce il fascino di una serie che deve il suo successo al sincero entusiasmo dei suoi autori, all’originalità di certi personaggi e al loro spessore psicologico.

VERSIONE APPROFONDITA (AtlantideZine)

martedì 24 agosto 2010

Alieni e vichinghi

Dunque, c’è il classico outsider che arriva nel villaggio vichingo e già lo capisci che flirterà con la femmina di turno, figlia ribelle del vecchio e saggio re e promessa all’ambizioso e arrogante tizio che potrebbe diventare re a sua volta. Ovviamente nessuno crede all’outsider quando dice di essere a caccia di draghi, neanche quando vedono gente squartata da enormi artigliate. Poi però fa amicizia con l’orfano e l’ubriacone, salva il re e diventa l’amicone di tutti. Successivamente il re crepa, la bella figa viene presa dal drago e il tizio arrogante e ambizioso muore eroicamente, dopodiché il protagonista ammazza il drago. Ovviamente.
Ok, sempre la solita solfa. Eppure Outlander un suo perché ce l’ha, soprattutto perché tanto il protagonista quanto il “drago” vengono da un altro pianeta. Sembra una cagata e la povertà della sceneggiatura non aiuta ma tutto sommato il film ha un buon ritmo e si lascia guardare, a patto di mantenere le pretese basse.

domenica 22 agosto 2010

Olocausto draconico

Quello post-apocalittico è uno scenario affascinante ma dopo Mad Max, Hokuto no Ken e Terminator diventa difficile non ripetersi. E allora? E allora buttiamoci dentro i draghi. Questo ha pensato Rob Bowman, regista de Il regno del fuoco. Ma se ci sono migliaia di draghi come mai i protagonisti li incontrano sempre uno per volta? E come mai la figa di turno se ne va in giro con l’elicottero senza che nessun mostro alato l’abbia ancora abbattuta? E dove la trova tutta quella benzina? Queste e altre leggerezze certo non facilitano quella “sospensione dell’incredulità” su cui un film del genere si basa ma vengono però messe in disparte da una narrazione ritmata e scorrevole. Efficace l’ambientazione, dominata dal grigio cenere e dal rosso fuoco, ben fatti i draghi e azzeccati i due carismatici protagonisti; Bale interpreta con mestiere l’umano e prudente capo comunità inglese mentre McConaughey molla i panni da fighetto e presta cranio rasato, muscoli tatuati e occhi spiritati all’avventato e spietato cacciatore americano. A completare questo film concreto e piacevole c’è uno scontro finale rapido ma non frettoloso e la messa al bando di certe sviolinate gratuite e sbavature retoriche.

giovedì 19 agosto 2010

L’amarezza dell’eroe

Dopo il successo de Il sesto senso, Shymalan ritrova Bruce Willis e confeziona intorno a lui il notevole Unbreakable. Unico sopravvissuto a un terribile incidente ferroviario, David Dunn viene avvicinato dal singolare esperto di fumetti Elijah Price, il quale ha un’ipotesi apparentemente assurda sulla sua miracolosa sopravvivenza. Il regista indiano racconta il viaggio di David alla scoperta di sé stesso con eleganza – notevoli i giochi di specchi con cui spesso riprende il fragile Elijah – e sobrietà, fino a giungere a un perfetto e drammatico finale a sorpresa. Ad affiancare il malinconico Willis c’è un Samuel L. Jackson misurato e convincente, una brava Robin Wright Penn e il giovane e ottimo Spencer Treat Clark.
Un film da vedere, specialmente ora che i supereroi stanno diventando più scuse per macinare quattrini che spunti e simboli intorno ai quali costruire storie intense e profonde.

lunedì 16 agosto 2010

Carne, ossa e il caro vecchio Newton... come cazzo facevano a sopravvivere?

Deathproof è indubbiamente il più erotico, logorroico, gratuito, feticista, insensato e demenziale lavoro di Tarantino. Il buon Quentin annoia a tratti, si cita addosso di continuo, sfodera un’indisponente parata di fighe, crea tensione come lui sa fare per un’ora e mezza e risolve il tutto con quindici minuti di inseguimenti e pestaggi. Più che un film, masturbazione cinematografica.
Inutile paragonarlo al resto della sua filmografia perché siamo dalle parti della cazzata d’autore ma se si hanno pazienza e dedizione vale la pena guardarlo; per Rosario Dawson, per le gambe da urlo della figlia di Sidney Poitier, per il formidabile Kurt Russell, per certi dialoghi, per la spontanea follia e perché alla fine, se si accettano le regole del gioco, ci si riesce anche a divertire.
Compare anche l’”Orso ebreo” Eli Roth.

sabato 14 agosto 2010

Diamanti di scarso valore

I film mediocri si dividono in due categorie: ci sono quelli dai quali non puoi aspettarti più di tanto perché bastano il trailer, la locandina, i nomi di autori e interpreti per intuirne il livello. E poi ci sono quelli che invece ti illudono, sfruttando ambientazioni esotiche, nomi di grosso calibro e la giusta dose di intrigo e sex appeal per creare delle aspettative che poi, immancabilmente, vengono deluse. After the sunset appartiene a questa seconda categoria. Un cast di prim’ordine per un classicone di guardie e ladri a caccia di un grosso diamante. Peccato che tutto sia mediocre, regia, sceneggiatura, storia, per non parlare degli attori: Brosnan gigioneggia senza mai cambiare espressione, Salma Hayek non fa nulla di particolare a parte ricordarci quant’è arrapante, Woody Harrelson fa la macchietta mentre Don Cheadle, il più sprecato, sembra uno che passava di lì per caso.
Niente di tragico, il film tutto sommato intrattiene senza annoiare e si lascia dimenticare in fretta. L’importante è tenere le aspettative basse.

giovedì 12 agosto 2010

“... come se tutti esistessero solo per essere usati nelle sue storie”

La vita fa rima con la morte si apre con una domanda: perché scrivi? Da essa ne derivano altre, che si affastellano nella prima pagina del libro. Sono domande alle quali lo scrittore protagonista si aspetta di dover rispondere al termine dell’incontro letterario cui è stato invitato come ospite d’onore. Prima, durante e dopo quest’incontro lo scrittore divaga, cogliendo dettagli dalle persone intorno a lui e sviluppandoli in abbozzi di storie, che a loro volta richiedono altri dettagli, generano interazioni e danno vita a intrecci spesso imprevedibili. Amos Oz gioca col flusso di coscienza, passa dalla prima alla seconda alla terza persona, scivola da un personaggio all’altro senza mai abbandonare l’unico luogo in cui è ambientato questo libro: la testa dello scrittore.
Una volta giunti all’ultima pagina non si trovano risposte dirette alle domande con le quali il libro è iniziato. Forse perché la risposta sta in quel divagare creativo e istintivo nel quale lo scrittore non può fare a meno di perdersi, varcando di continuo la soglia fra realtà e immaginazione.
Intrigante e riflessivo, non privo di autocompiacimento.