Cosa determina il nostro aspetto fisico? Cosa definisce il
nostro maggiore o minore livello di intelligenza? Cosa influisce sul nostro
comportamento, sui nostri gusti sessuali, sulle nostre probabilità di successo
nella società? Secondo molti, la risposta a queste domande è sempre la stessa:
i geni.
Il travolgente successo della genetica ha reso il gene un paradigma
dominante non solo nella biologia moderna ma anche nell’immaginario collettivo,
un paradigma secondo il quale nell’informazione genetica è contenuto tutto ciò
che definisce gli esseri viventi – e quindi anche l’uomo – dal punto di vista
fisico e comportamentale. Negli ultimi decenni è emerso un pensiero
gene-centrico forte, una metafisica determinista alla quale, per dirla con le
parole di Bertrand Jordan, biologo molecolare, «non aderiscono solo i giornali
e i giornalisti, che quasi ogni giorno ci propongono l’identificazione di un
qualche gene che, in modo del tutto improbabile, governerebbe i nostri
caratteri più complessi e i nostri comportamenti più personali. A questa
metafisica aderiscono, spesso, anche alcuni uomini di scienza. E persino
qualche biologo». Jordan scriveva queste parole in un libro dal titolo
significativo, Gli impostori della
genetica, ma già una decina di anni prima c’era stato chi si era scagliato
contro il determinismo genetico. Si tratta del genetista Richard Lewontin,
classe 1929, uno dei pionieri della genetica delle popolazioni e dell’evoluzione
molecolare, autore di un libro breve e intenso, anch’esso dal titolo
estremamente significativo, Biologia come
ideologia, edito in Italia da Bollati Boringhieri.
Nel 1990, Lewontin venne invitato a tenere le Massey Lectures, delle lezioni
radiofoniche che ogni anno, per una settimana, vengono organizzate in Canada su
temi politici, culturali e filosofici. Da quel ciclo di discorsi nacque in
seguito questo libro.
Due sono i binari su cui si muove la critica di Lewontin.
Il primo è quello scientifico; il genetista americano spiega come il determinismo
genetico sia basato su ipotesi deboli, dal momento che già negli anni ‘90 si
sapeva che l’informazione contenuta nel genoma non era “il” linguaggio della
vita bensì “uno dei” linguaggi della vita. Durante la formazione di un
individuo, dall’uovo fecondato all’adulto, i processi di sviluppo embrionale e
i fattori ambientali possono infatti interferire con l’attività dei geni,
spegnendoli e attivandoli. In più, gli stessi prodotti dei geni, le proteine, possono
a loro volta agire sull’espressione genica, modificandola. Risulta dunque
chiaro che il gene non è la “molecola capo” che siede in cima a una gerarchia
biologica, bensì un elemento integrato in un sistema complesso, che influenza
ed è a sua volta influenzato dagli elementi che lo circondano.
Lewontin prosegue allargando il campo e andando ad
affrontare il tema della sociobiologia, una corrente della sociologia secondo
la quale esistono geni per ogni forma di comportamento sociale, dalla
religiosità all’intraprendenza, dal dominio sessuale alla xenofobia, geni che quindi
dovranno passare il filtro della selezione naturale per guadagnarsi un posto al
sole nella società. Se i geni determinano gli individui e gli individui
determinano la società, ne consegue che i geni determinano la società. Una società
la cui fissità e le cui gerarchie sarebbero dunque “giustificate” dalla natura biologica
delle sue componenti individuali. E allora, «se tre miliardi di anni di
evoluzione ci hanno resi quel che siamo, crediamo davvero che un centinaio di
giorni di rivoluzione ci cambieranno?», chiede provocatoriamente Lewontin.

Dal punto di vista stilistico, Lewontin ha scelto, come lui
stesso racconta nell’introduzione, di mantenere i toni discorsivi della radio. Scelta
efficace dal punto di vista comunicativo, poiché contribuisce a tenere alto il
ritmo e a non smorzare la forza polemica del testo, ma che costituisce anche il
suo tallone di Achille. Certi passaggi – come quello sulla tubercolosi e le sue
vere cause – vengono infatti affrontati con una rapidità che potrebbe
disorientare, e talvolta anche disturbare, più di un lettore. Si potrebbe
obiettare che l’importante è dare stimoli e spunti per una discussione critica
del problema, il che è vero, ma ciò smaschera il secondo difetto del libro, e
cioè la scarsità della sua bibliografia. Un maggior numero di riferimenti
aiuterebbe infatti il lettore ad approfondire i temi, tanti, che Lewontin tira
in ballo.
Si tratta di due difetti tutto sommato secondari, che non
intaccano la forza del pensiero del genetista di Harvard. Che piacciano o no,
le sue critiche smascherano questioni reali e attualissime anche a vent’anni di
distanza, il che rende questo libro una lettura necessaria, per ricordarci quei
problemi che né la società né tantomeno la scienza possono permettersi di
trascurare.
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